I lavoratori si comprano l’impresa - Settembre 2015
Il tema dell’innovazione sociale come brand che qualifica il business non di una impresa dell’economia sociale ma di un player globale dell’industria meccanica o della grande distribuzione è una formula che viene proposta sempre più spesso tanto da non riuscire quasi più a distinguere o meglio a capire, la differenza tra imprese non profit e imprese for profit. Dobbiamo però stare attenti quando si parla di innovazione sociale e di economia sociale, a non degradare tutto al rango di mero riposizionamento dell’economia capitalistica su tematiche alla moda, utili a sostenere politiche di comunicazione. Sarebbe un errore madornale perché in ballo ci sono questioni molto complesse che chiamano in causa la ristrutturazione profonda delle catene di produzione del valore, sempre più chiamate, per essere competitive, a incorporare fattori di socialità e sostenibilità ambientale. Non questioni da trattare come mere “esternalità positive”, ma come componenti strutturali di nuovi modelli di business. Messa in questi termini, l’innovazione sociale assume una rilevanza centrale nel discorso sui processi di cambiamento e, nello specifico, sulle forme di organizzazione del lavoro e sul ruolo che può assumere l’economia sociale e solidale. In parole povere: produrre impatto sociale non solo con le risorse redistribuite dalla Provincia o dallo Stato ma anche attraverso economie autenticamente sociali.
Qualche esempio? Utilizzare l’agricoltura per innovare le politiche sociali, oppure produrre cultura per innovare le politiche del comparto delle costruzioni, rigenerando spazi e beni immobili come asset comunitari (il tema dei beni comuni…); e ancora ripensare le politiche di sicurezza investendo su progetti di coesione che puntano sullo sviluppo di socialità e non sul “controllo del territorio”. Trovare nuove modalità, nuovi canali di collegamento per mettere in rete e avviare processi innovativi nei sistemi economici rappresenta oggi la grande sfida soprattutto per le organizzazioni di economia sociale e solidale e quindi anche per la cooperazione. Il fenomeno dei workers buyout, inteso come l’acquisizione da parte dei lavoratori della proprietà e del controllo dell’azienda, è un esempio di innovazione sociale che può essere intrapresa dai lavoratori nel tentativo di “recuperare” le aziende costrette a chiudere, mantenere il loro posto di lavoro e non disperdere le competenze acquisite durante gli anni di attività lavorativa. Una innovazione che ha radici antiche; si parla della ex legge Marcora voluta proprio per sostenere progetti di questo tipo e che sono già stati sperimentati anche nelle nostre Giudicarie, in particolare nella Valle del Chiese. Non stiamo parlando infatti di fenomeni nuovi, anche se la crisi ha amplificato tutto. Le difficoltà aziendali che portano alla chiusura di aziende non sono purtroppo una novità ma la trasformazione da impresa ordinaria a impresa cooperativa è sempre più attuale e il suo monitoraggio permette di studiare anche le più recenti evoluzioni e i nuovi sviluppi della cooperazione di produzione e lavoro. Alla luce dell’interesse per la tematica, una ricerca è stata portata avanti da CFI (Cooperazione Finanza Impresa), ente compartecipato dal Ministero dello Sviluppo Economico, che si occupa del sostegno e del finanziamento finalizzato a piani di investimento delle cooperative di produzione e lavoro. Da questa ricerca è emerso come negli ultimi anni siano numerosi gli esempi di nuove cooperative di lavoro che rispondono alla crisi e alla chiusura di molte aziende, con percentuali di sopravvivenza di lungo periodo prossimi al 50%. Un fenomeno quello dei workers buyout, che si sta diffondendo in tutta Italia e in numerosi settori di attività e in alcuni casi dovuto al problema del ricambio generazionale e quindi non solo per risolvere problemi legati alla crisi. Tante infatti sono le storie di successo che, anche con l’aiuto del Credito Cooperativo, hanno consentito ai dipendenti di società in difficoltà di organizzarsi e rilevarne la proprietà. Alcuni esempi sono la cooperativa Arbizzi di Reggio Emilia, nata il primo luglio 2014 quando 16 lavoratori si sono trasformati da dipendenti a soci e hanno rilevato dal proprietario e fondatore l’azienda che opera nel campo della commercializzazione di prodotti e materiali per l’imballaggio industriale. La Pansac di Ravenna che produce imballaggi plastici o la Bulleri Brevetti di Pisa attiva nella produzione di macchinari per la lavorazione del legno, della plastica e dell’acciaio. Attenzione al territorio senza perdere di vista l'internazionalizzazione, il tutto condito da formazione, rete di sistema e nuove modelli di sviluppo. E’ questa la ricetta della cooperazione fatta di realtà da sempre protagoniste del mondo imprenditoriale; motore delle comunità locali, le cooperative non puntano a delocalizzarsi ma non per questo si chiudono all'innovazione e in tempo di crisi sanno trasformarsi e creare nuovi posti di lavoro.