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La Nuova Emigrazione, tra fuga e opportunità - Febbraio 2017

Sono più di centomila quelli certificati. Ma sono molti di più, gli italiani andati a vivere all’estero nel corso del 2015: perché di solito ci si iscrive all’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE) solo dopo anni, quando la partenza non è più un’avventura appena iniziata ma una fase nuova della propria vita. Oltre diecimila dal Veneto (seconda regione in cifra assoluta, dopo la Lombardia), oltre quattromila dal Friuli, quasi tremila dal Trentino. L’effettiva consistenza del nuovo flusso emigratorio dall’Italia verso L’Europa in primis ma anche verso Nord e Sud America, stando ai dati forniti da istituti statistici europei, risulta essere superiore fino ad oltre 4 volte ai dati Istat/Aire. La fase che stiamo vivendo, iniziata dopo il 2000 ha visto tornare a crescere il flusso emigratorio, fino a raggiungere, secondo stime comparate tra dati italiani e dati esteri, tre i 250 e i 300mila espatri. Parliamo di una nuova stagione di emigrazione. In effetti ha ragione il Prof. Stefano Allevi, sociologo presso l’Università di Padova, quando evidenzia che dovremmo aggiornare il nostro vocabolario e parlare di mobilità di medio e lungo raggio, di pendolarismo allargato. Si, perché si parte per cercare un lavoro che non si trova a casa, certo. Ma non solo. Si parte anche per fare il lavoro per il quale si è studiato, per farlo a condizioni migliori, con un salario più alto. E per fare esperienza, per spirito di avventura, per andare a vivere in paesi e città più stimolanti e vivaci, che offrono opportunità (non necessariamente solo di lavoro: anche di vita, di divertimento) che da noi non ci sono. E, infine, semplicemente perché il mondo è davvero globale, ogni posto è più vicino di prima, i viaggi sono molto più brevi e più economici, e si rimane comunque connessi – grazie a tecnologie a disposizione di tutti ed economiche – con il proprio paese di origine e i propri affetti. L’idea che muoversi e cambiare può valere la pena l’abbiamo introiettata tutti, ormai. Anche i pensionati che vanno a godersi la pensione altrove. Dal 1870 al 1970 si sono registrati circa 27 milioni di espatri. I discendenti italiani oggi nel mondo sono stimati tra 60 e 80 milioni. Alla fine del 900 vi fu la prima grande fase con 5,3 milioni di espatri.

 

Mete principali: Francia e Germania / Argentina, Brasile, USA. Si trattò in gran parte di movimenti spontanei e clandestini. I 2/3 di questi flussi erano originari del nord Italia e molti dal nostro Trentino e dalle nostre valli. Tutti noi abbiamo un famigliare o un parente che è andata a cercar fortuna all’estero. Un secolo fa ci voleva un mese di transatlantico e l’impegno dei risparmi di una famiglia per andare in America. Oggi vai avanti e indietro in poche ore e con pochi soldi: i problemi semmai, a differenza del passato dove non servivano documenti e visti stà nella burocrazia, negli ostacoli legislativi. E questo è anche il motivo per cui migliaia di disperati pagano e rischiano la vita per venire da noi. Noi che siamo più privilegiati. Siamo nati dalla parte giusta e possiamo spostarci. Certo le ragioni rispetto al passato sono cambiate. La fame vera c’è, ma è più rara. I più giovani si spostano per molte ragioni. Quelli con istruzione superiore cominciano già con gli Erasmus a proiettarsi altrove. Nel mondo della ricerca si comincia dai primi anni di università a guardarsi in giro per i dottorati all’estero. Chi sceglie questi lavori lo sa, che il mercato è “largo”. Nel mondo dell’impresa, in molti lavori si presuppongono almeno alcuni anni di permanenza all’estero, o presenze temporanee ma lunghe, legate a progetti. Nel mondo dell’arte, della cultura, dello sport, nessuno guarda più ai confini nazionali come a un vincolo. Ma anche chi fa il cuoco o il cameriere si proietta in un mondo di mobilità fin dai primi stage. E spesso spostarsi è l’opportunità che mancava per uscire dal controllo sociale familiare, per prendere in mano il proprio destino e buttarsi nel mondo. Il differenziale vero lo fa non il dover genericamente partire (accade anche in paesi messi meglio di noi), ma la tristezza di farlo perché si deve. Molti dei nostri giovani che migrano non pensano a rientrare; non pensano neanche a costruirsi la casa in Italia, a prescindere dal grado di nostalgia che come ogni migrante provano; sono molto realisti: hanno molti dubbi che il nostro paese possa riproporre loro condizioni di lavoro e di vita dignitose o soddisfacenti a breve o medio termine. E se questo trend si consolida, inevitabilmente, ci si troverà di fronte a ricadute negative: diminuisce la popolazione da una parte e dall’altra calano le competenze di medio-alto livello per lo sviluppo. Una sorta di “vuoto a perdere”, che però è costata tantissimo in termini di investimenti del pubblico e delle famiglie. La priorità è quindi va orientata alle politiche sociali e del lavoro che consentano di trattenere o offrano opportunità di rimpatriare ai nostri giovani ma, con la consapevolezza che per un lungo periodo, purtroppo, non si avranno le risorse per valorizzare questo nostra parte di capitale umano. In questo scenario, politiche di cooperazione internazionale con paesi in via di sviluppo o che necessitano di risorse umane di un determinato livello di competenze (Sud America e Africa) può essere strategico. Evitare di aumentare il vantaggio competitivo dei paesi ns concorrenti, che si ritrovano ad avere alta competenze (i ns giovani) a basso prezzo (istruzione pagata dal nostro paese e dalle nostre famiglie) e favorire invece la cooperazione con quei paesi laddove questa potrebbe produrre economie per noi sia direttamente attraverso gli scambi commerciali e il ritorno dei nostri giovani, che indirettamente equilibrando il fenomeno opposto dell’immigrazione. Se in questa fase non siamo in grado di gestire adeguatamente la dinamica geopolitica internazionale in termini di competizione, potremmo tentare almeno parzialmente, in termini di Cooperazione, coniugando il diritto ad emigrare, con il diritto a non emigrare per forza, o ad emigrare dove conviene di più al paese. In prospettiva infatti, la mobilità aumenterà ulteriormente, in ingresso e in uscita, quasi ovunque. E’ un mondo diverso. Il vero dramma non è l’emigrazione: ma il fatto che il cambiamento sociale è già avvenuto, e noi dobbiamo ancora cominciare a pensarlo.